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Rispetto all'immediata e duratura popolarità di Alcools (1913), l'ultima raccolta poetica di Apollinaire, Calligrammes (1918), è stata a lungo gravata da sospetti e rifiuti da parte della critica e del pubblico. Fin da subito, anche i suoi amici e ammiratori più fervidi non solo hanno visto negli indeogrammi lirici un futile gioco infantile ma hanno condannato la passione bellicista delle poesie di guerra contenute nella silloge. Solo a partire dagli anni Cinquanta, grazie agli interventi di Décaudin, Butor, Debon, la critica ha potuto restituire a Calligrammes tutta la sua ricchezza e la pienezza del suo valore. La jolie rousse, collocata da Apollinaire alla fine della raccolta, invita senz'altro il lettore a considerarla un testamento e un manifesto di poetica, anche per il tono a tratti riflessivo e per alcuni giudizi di ordine estetico. Tuttavia, una lettura approfondita di questo celeberrimo componimento, attraverso quella fondamentale esegesi che si basa sullo studio delle sue traduzioni, rivela una molteplicità di sensi che impediscono di costringere e limitare La jolie rousse nei confini di un genere. La questione centrale, all'epoca delle nascenti avanguardie, è costituita dalla lunga querelle dell'ordine e dell'avventura, della tradizione e dell'invenzione su cui il poeta, che si sente giunto al culmine della sua maturità esistenziale ed estetica, ritiene di poter giudicare. Ne risulta però l'impossibilità di poter prendere parte per l'una delle due polarità e sulla base di una incrollabile fiducia nel potere cretivo della poesia viene affermata una inedita sintesi che schiude nuovi itineari estetici.