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I vincoli connessi a quella che nella letteratura è stata definita la diaspora criminale nigeriana scandiscono il tempo delle giovani donne una volta arrivate in Europa, a partire dal peso del debito contratto. Segnati da una violenza agita il più delle volte da altre connazionali, i loro destini rivelano le conseguenze di forme di coercizione psichiche, fisiche e morali. Il loro corpo si fa così officina, spazio dove si "cucina" e si consuma un dolore che testimonia di un passato infinito: cicatrici, ustioni e morsi denunciano i delicati riequilibri di potere; fitte e bruciori rivelano un insulto d'organo, o un attacco agito il più delle volte nel registro magico e stregonesco. E poi ancora: gli aborti spontanei e le interruzioni di gravidanza, i figli presi in adozione, la perdita della propria discendenza ricordano che il peggio non si scongiura con l'emancipazione dallo sfruttamento. Queste donne non rimangono però passive, né parlano solo da vittime. Se hanno deciso di lasciare il loro paese, è per separarsi a ogni costo da una vita che non riservava loro nulla di buono. Quando si oppongono alle decisioni di un giudice o criticano l'operato dei servizi socio-assistenziali è per mantenere un legame che mai avrebbero pensato qualcuno potesse spezzare. Certo, ogni insubordinazione alle aspettative di genitorialità degli enti preposti alla tutela del minore la pagano cara. Eppure non sono poche a mostrare la loro capacità di rispondere senza dare segno di sottomissione. A partire da una ricerca lunga vent'anni e condotta tra Torino e Napoli, l'etnografia della migrazione nigeriana e della sua cifra distintiva (quella di un debito al contempo economico e simbolico) contribuisce a illuminare il valore sociale delle "persone" e delle "cose". Il lavoro esplora sia l'anatomia di un potere che si manifesta nel rito, sia la conoscenza necessaria tanto al sistema di assoggettamento, quanto alla cura di chi vuole riprendersi le manciate di vita che restano. Prefazione di Pier Giorgio Solinas.