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Di calcio si parla tanto, eccome. Quotidiani, riviste, saggi, romanzi. Tutto è calcio. L'antropologia non se n'è mai occupata. Ma perché escludere dall'analisi un "fatto sociale totale" - come diceva Mauss - qual è il calcio? Negli studi antropologici, grazie alle proposte di Clifford Geertz, si è cominciato a valorizzare "il punto di vista del nativo". Nel calcio questo sembra accadere da tempo. Gli addetti ai lavori provengono sempre e comunque dal mondo del calcio anche se spesso non sembrano possedere una conoscenza "totale" del fenomeno. Ma per restare in tema antropologico, dove si situa quella linea di confine che presso tante società è tutt'altro che labile e che viene definita "rito di passaggio"? Perché non esiste il senso dell'auctoritas e tutti si sentono legittimi esperti dell'ambito calcistico? Non sfugge una coincidenza terminologica, sorprendente e allo stesso tempo illuminante. Esiste un luogo, metaforico o meno, che è il teatro di ogni azione calcistica e di ogni azione antropologica: il campo. L'antropologo come il calciatore, prer essere degno di visibilità e credibilità, in altri termini per svolgere il proprio lavoro, deve "stare" sul campo. Quindi l'antropologo, per parlare di calcio, non può che essere anche un calciatore dilettante.