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«Non urto contro i lampioni né contro i passanti, soltanto cammino e puzzo di birra e di sporcizia, ma sorrido, perché in borsa porto libri dai quali mi aspetto che a sera da loro apprenderò su me stesso qualcosa che ancora non so». La maniera giusta per leggerne gli scritti l'aveva indicata lui stesso. Mettetevi comodi, ordinate da bere, che inizio a parlare. Pardon, a scrivere. Anzi, pardon, a trascrivere. Si perché Bohumil Hrabal si è sempre dichiarato un trascrittore, ponendo in chiaro quale fosse il suo atteggiamento rispetto al mestiere dello scrivere. La sua posizione nel mondo. Trascrittore di ciò che lo circondava, della storia del suo popolo colto e infelice, scriba sudato e coinvolto, mai distante, di narrazioni orali, di urla, risate sguaiate, di cialtronerie, irregolari vicende della vita normale, di sorrisi davanti alla tragedia. Di tragici silenzi. Poeta del particolare che diventa, grazie alle sue mani, divino. Un tramite, volendo addirittura svilire l'intenzione. Una brocca che si riempie e riversa. Toccato dal dono e perciò in grado di far comunicare attraverso se stesso l'eterno e il quotidiano. Rielaborare tutto, riciclare. Come quelle comunità ormai confinate nell'aneddotica e nel racconto buffo, in cui gli abitanti vivono reinventando gli oggetti che la società normale getta via. In Hrabal tutto è superfluo ma ogni parola è messa proprio lì dove dovrebbe stare.