Tab Article
Sinisgalli diceva che «camminando dentro una bella architettura [...] riesci sempre, allungando le mani, ad afferrare il cielo». Questo gesto di meravigliosa rapina si può sperimentare ovunque nel Palazzo ducale di Urbino, e anche il gioco contrario, quando proprio è il cielo ad allungare le sue braccia negli spazi edificati. Perché davvero a Urbino, con evidenza assoluta, e come scrive Bo, l'architetto ha saputo allacciare «l'aria e la terra», e costruire con la luce una seconda impalpabile architettura. L'inganno ottico è perfetto, la robusta struttura militare di radicamento decide le ombre e i riflessi specchianti, mentre germoglia i lunghissimi steli dei torricini: leggeri, con quegli angeli d'oro che spiccano il volo là in cima, ai due lati dell'aquila. La misura celeste di questo palazzo è - anche qui come in ogni dettaglio - meditativa. Sia quando protegge la Urbino più domestica e popolare, o quando apre i suoi piccoli e grandi cortili, o specialmente quando risponde alla voce e alle sollecitazioni incantate del paesaggio. Passo dopo passo, da una visione aerea dei due colli della città, l'uno vocato alla guerra, l'altro alla pace, quindi assecondando il periplo del palazzo e infine consegnandosi al vestibolo del cortile d'onore, e salendo poi sino alle stanze attraversate secondo l'itinerario che da pubblico si fa privato ed intimo - dalla sala del trono allo studiolo alla Cappella del perdono - Carlo Bo racconta come la grande metafora di questo edificio, l'esercizio spirituale che è da compiersi nel visitarlo, sia proprio quello dell'ascesi. Richiesto ad un compito d'alta divulgazione (e vasta quanto l'Europa e le terre nord-americane), e nel tempo saliente del cinquecentenario (1982), Bo non ha potuto rinunciare a una compiuta esegesi filosofica di questa realtà che ogni giorno affrontava con la meraviglia negli occhi, e forse il desiderio di ritirarsi e comprendersi nella grotta-tana-frattura dello studiolo di Federico, la minuscola couche dove far germogliare ogni seme.