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Un bambino stacca un lume dal soffitto, un altro siede su un lenzuolo disteso sul pavimento. Entra in campo la madre che cammina fra le stanze, si volta indietro, dice alcune parole che non udiamo, esce all'esterno. Rivediamo, al di là di una porta, il primo bambino che armeggia col lume. Rientra in campo la madre, passa davanti a noi ed esce nuovamente. La lasciamo per tornare a rivolgerci all'interno, dove il secondo bambino, immerso nel buio, accende un fiammifero... Il piano sequenza è tutto qui, dal punto di vista narrativo è pressoché inesistente: è vita che scorre nel fluire del tempo. Per Andrej Tarkovskij fare cinema non consiste infatti nel raccontare «piccole 'storie' recitate e filmate». I suoi film si distinguono invece per un uso accentuato delle specificità del cinema, concepito come un'arte più vicina alla musica e alla poesia che alla letteratura. Le sue opere ci immergono in un narrare in cui la rappresentazione della cosiddetta azione, ovvero della parte immanente della vita, si è ineffabilmente rarefatta. La diegesi lascia il posto a meditazioni che si fanno pura immagine, immerse nel silenzio e nel tempo. Un altro tempo. E affinché ciò accada tutto deve fermarsi. Si medita stando immobili, si può ancora meditare in pacato cammino; non si medita in corsa.