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Apparso dopo gli orrori della prima guerra mondiale, e ripubblicato in edizione ampliata dopo gli orrori della seconda, il Cicerone di Francesco Arnaldi (1897-1980) resta tra i memorabili contributi che la filologia italiana ha saputo dare agli studi classici. Scritto con una prosa impressionista, e con il piglio e la passione di un innamorato, prima ancora che di uno studioso, della cultura classica, il libro «vuole essere», come avverte l'autore, «un'interpretazione, più che un'apologia», della vita e dell'opera di Cicerone. L'Arpinate, dal Drumann al Mommsen e al nostro Ciaceri, aveva subito svalutazioni e rivalutazioni eccessive, in un caso e nell'altro. Nel 1947, l'anno che precede la seconda edizione del Cicerone di Arnaldi, in Francia, il Carcopino dà alle stampe un saggio che finisce ancora una volta col «disonorar Cicerone, e quanti, in un modo o nell'altro, si potevano attraverso le sue lettere mettere in cattiva luce». La tesi di Arnaldi è che la vita e l'opera di Cicerone meritano di essere studiate, «dentro e fuori della scuola», perché «tendono alla formazione di una classe dirigente, che sappia trarre dall'humanitas del suo spirito e della sua cultura la forza e la luce necessarie». Arnaldi, attraverso il fondatore dell'humanitas-cultura, non fa che ribadire la sua convinzione più profonda di uomo, di studioso e di Maestro, quella dell'utilità e dell'insostituibilità della formazione umanistica per ogni classe dirigente.