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Da alcuni anni, gli spazi della comunicazione massmediatica si sono venuti affollando di notizie, consigli, dibattiti e riflessioni riguardanti il cosiddetto cibo locale, proponendolo come una sorta di controriforma alimentare da contrapporre al mito anglosassone del fast food. Esaltato come salutisticamente appropriato e gastronomically correct con i paradigmi alimentari espressi su scala territoriale, il cibo locale - alias tipico, alias paesano, alias casareccio - costituirebbe cioè l'uscita di sicurezza in grado di redimere i gusti contemporanei da infauste derive esterofile e iperlipidiche, consentendone un riorientamento in chiave narcisisticamente nostrana. E così, casce e ova, scripellem'busse, paparotte, bazzoffie, strinù, turcinatieddi, prebuggiun, ciciri e tria, bell e cott, mandilli de sea, hanno progressivamente assunto la connotazione di un mangiare autentico capace di riconnettere gusto e tradizioni, ricette e stagioni, appetiti e salute, stomaci e cittadinanze, secondo consuetudini sedimentatesi nella storia culinaria di ciascun territorio italiano.