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Non c'è da meravigliarsi più di tanto della pressoché totale dimenticanza in cui è caduto Paolo Cesarini. Neppure un suo articolo è ristampato nei quattro ponderosi volumi della magnifica antologia sul Giornalismo italiano che Franco Contorbia ha allestito per i Meridiani di Mondadori: né un accenno in bibliografia del suo lavoro di inviato speciale ed elegante elzevirista. La discrezione non paga. E forse per lui penalizzante è stato anche il suo situarsi al confine, sia per la varietà di generi che coltivò sia per i burrascosi tempi in cui dette prova del suo mestiere di giornalista-scrittore. Nonché una patina linguistica toscaneggiante che, pur dosata, fa da filtro. Nel periodo di apprendistato Cesarini fu uno dei tanti giovani abbagliati dalle promesse rivoluzionarie del movimento fascista: se qualche tratto di originalità risalta nella produzione di allora, si direbbe inscrivibile nella tendenza ad una calcolata finezza letteraria e ad una prosa impreziosita da connotazioni locali e ammiccanti sprezzature. I resoconti dell'avventura africana - la guerra d'Etiopia - rivelano uno sguardo alieno dall'enfasi esclamativa e non di rado riflettono un dolente, punto retorico, autobiografismo. La fase ultima, il terzo tempo, dopo la fine della guerra e l'instaurazione della Repubblica, vede un Cesarini che riprende il lavoro in silenziosa dignità alla "Gazzetta del Popolo". Introduzione di Roberto Barzanti.