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In questa meditazione sui "Promessi Sposi" l'autore, partendo dalla figura dell'Innominato, la interroga per sondare le dinamiche della conversione, e la inquadra nelle categorie kierkegaardiane di angoscia, disperazione e fede; da questa riflessione scaturisce l'idea della centralità della grazia divina nel cammino della libertà umana verso la salvezza, che può essere tardivamente accolta, come nel caso di Gertrude, o respinta con impenitente pervicacia, come il Manzoni lascia immaginare a proposito di don Rodrigo. La grazia si esprime nel dono della fede, che è prima di tutto una rinuncia all'orgogliosa sicumera di donna Prassede e un abbandonarsi ai disegni insondabili della Provvidenza, come insegna Lucia. Ma questo saggio riflette anche sulla concezione politica di Renzo, che da una sorta di iniziale "giacobinismo" perviene alla piena accettazione del Vangelo del perdono, o di Agnese, di cui si scopriranno doti intellettuali assolutamente inaspettate. E così anche gli altri personaggi, senza forzarne i tratti psicologici assegnati dal romanzo, vengono vagliati per rispondere a tutte le domande decisive dell'esistenza umana e cristiana, nella profonda convinzione che nell'opera manzoniana si trovi la lieta novella declinata nella concretezza della vita del XVII secolo.