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È una crisi che fa poco rumore, come un'emorragia interna, profonda e strisciante: è la crisi dell'agricoltura italiana segnata da una storia di abbandono. Lo spopolamento delle campagne è in parte frutto del disamore delle nuove generazioni nei confronti dell'attività agricola, attirate da percorsi formativi apparentemente più attrattivi perché "di tendenza" ma non per questo garanzia di uno sbocco lavorativo. L'Italia è il Paese che conta, per esempio, più avvocati in Europa: ben 210.000, uno ogni 283 abitanti. Numeri alla mano, occorre andare nelle scuole per spiegare ai ragazzi che, per l'appunto, è "meglio un contadino laureato che un avvocato disoccupato". Eppure il settore agricolo, secondo solo al settore metalmeccanico nel nostro Paese quanto a importanza e redditività, avrebbe grandi potenzialità. Occorre una rivoluzione culturale, fatta di una capacità di pensiero "giocale", di un approccio multisettoriale e multifunzionale che coinvolga le aziende familiari e quelle "professionali" e che riscatti Vhomo ruralis. Occorre un federalismo anche agroalimentare, in cui le differenze e le peculiarità dei singoli territori possano tornare a essere risorse. Rilanciare l'agricoltura è possibile attraverso l'adozione razionale delle bioenergie, investendo sulla creazione di filiere produttive integrate e sulla piena valorizzazione delle risorse naturali, ristrutturando il settore formativo.