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Prima di covid-19 veleggiavamo in tutta serenità verso quel "sempre", inesistente in biologia, ma ben radicato nelle nostre speranze. La pandemia da covid-19 ha improvvisamente interrotto la navigazione con un inaspettato naufragio. Non è cambiato proprio nulla: il destino e la fragilità biologica dell'uomo rimangono sempre quelli. Solo che improvvisamente abbiamo preso coscienza di quanto possiamo essere deboli e di come il destino di tutti ci coinvolga. Il covid-19 ha trasformato tutti gli "altri" in "noi" e abbiamo improvvisamente preso coscienza dell'impossibilità di fronte all'ignoto della certezza di sapere sempre come guarire, richiamando la necessità della cura. Il prendersi cura ai tempi del coronavirus, ci dicono queste pagine, è possibile anche quando il guarire non è possibile. La trasformazione del compito del medico da guaritore a curante richiede un cambio di mentalità, un lasciar posto alla solidarietà e all'empatia. Vuol dire anche accettare, come "guaritori", che il dolore degli altri ci ferisca; vuol dire prendere coscienza che quello che solitamente tentiamo di nascondere non è mero indice di debolezza, ma evidenza del fatto che si è uomini e donne come gli altri. E come tutti si soffre e si è vittima del dolore: il dolore dei curanti necessita esso stesso di essere preso in cura. L'epidemia da coronavirus è stata un'esperienza traumatica collettiva e come tale va curata attraverso l'elaborazione, la comunicazione e la catarsi. Le va data voce perché la parola è essa stessa cura.