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Benedire la morte, la malattia, il pericolo, la paura. Benedirli e rovesciarne il significato. Questa sembra essere la scommessa di Tibet. In queste poesie, quegli agguati della disperazione e quell'intelligenza del dolore che in passato sono stati cantati e anche ferocemente messi a giorno dall'opera di Carifi paiono cedere il passo a un nuovo, rasserenato, eppure consapevole e paradossalmente sofferto atteggiamento contemplativo. Il distacco e la disposizione all'ascolto si affermano qui come stazioni di un passaggio, un passaggio che questi versi ci invitano a compiere. Non è necessario disporre di grandi dispositivi dottrinali, nemmeno di quelli relativi al pensiero e alla spiritualità buddisti cui il libro fa costante riferimento, per essere nutriti e contagiati dalla forza e dalla vera (e mai autoritaria) autorevolezza di queste parole. Esse ci ricordano soltanto ciò che è più semplice: che la nostra esistenza non ha bisogno di significato e che il nulla che sembra inghiottirci non è altro che lo spirito del nostro stesso essere.