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Ogni verso rappresenta un pensiero a sé stante e le parole vengono spesso usate per la loro sonorità piuttosto che per il loro significato. Eppure la ricerca oggettiva che scava in se stessi, fino a scendere nelle parti più recondite dell'inconscio, ci tiene incollati al testo. Non c'è lettera, non c'è punto, virgola o pausa che non induca a pensare quale sia la fase in cui ci si sta trovando nell'identificazione del male sedimentato in noi. Un male che però la poesia sa fare emergere e così facendo genera il presupposto del suo superamento. Suicidio di un se stesso radicatosi nel tempo a causa di processi intellettuali tanto profondi quanto alienanti. Quel substrato va rimosso, ma come la peggiore delle incrostazioni, sembra non possa essere scalfitto, appiccicato com'è al profondo della coscienza e della conoscenza. Ed allora la geniale intuizione di Alberto Di Presa, usare il male per scalfire il male. Ed infatti ogni verso di questo struggente poema pare un grimaldello che usa acciaio su acciaio, anche se per numerose pagine intere non sembra poter raggiungere mai il benché minimo risultato. La lettura non si può però interrompere, affascinati da questa battaglia impari del se stesso che conduce contro se stesso. Piccoli e passeggeri sollievi giungono dall'esterno per la presenza di 'Meretrice' capace di anestetizzare le ferite. Ma si tratta di rimedi provvisori poiché subito dopo le pietre riprendono ad essere levigate dal passaggio furente del fiume che non perdona e rischia di trascinarti, lentamente, ma inesorabilmente al largo per farti annegare. Eppure il coraggio di confrontarsi col male a poco a poco genera risultati, prima sulla consapevolezza, poi consentendo il superamento. Quando Carmelo Bene, in un momento drammatico della sua vita, scrisse il poema 'l mal de' fiori, indagò nel profondo dell'inconscio con "precari equilibri semantici tanto da dare al lettore l'impressione di percorrere un labirinto orfano del Minotauro." (Sergio Fava) "Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star inavvenir Nel sogno che non sai che ti sognare tutto è passato senza incominciare 'me in quest'andar ch'è stato". Un mirabile complesso architettonico-grammaticale, caratterizzato da un'ipersaturazione retorica fatta da metaplasmi, parole macedonia, malapropismi, anacronismi, lapsus, doppi sensi, ecc.) e da uno strabordante plurilinguismo - non uno sfoggio di abilità linguistiche, ma un insistente tentativo di ricomposizione di una lingua arcana, 'pre-storica' - che si realizza attraverso la sovrapposizione di lingue distanti nel tempo (Sergio Fava). Ebbene nel poema di Alberto Di Presa la ricerca di una lingua propria si conforma ad un profondo esame introspettivo e ogni singolo lemma sgorga non come pensato, ma come generato dall'inconscio. Questa chiave di lettura porta a confrontarci come lettori con ogni singolo verso, senza la necessità, o meglio perdendo ben presto la necessità, di ricercare il filo conduttore di una storia. Solo quando noi stessi, educati dalla 'nuova' lingua, impariamo ad abbandonarci alle emozioni, 'suicidando' l'intellettualismo (razionale?) che pervade i nostri parametri di approccio alla lettura, allora riusciamo ad entrare nei meandri del testo e a carpirne la specifica essenza. Questo processo cognitivo in fieri che acquisiamo parola dopo parola, dopo ogni pagina ci incolla sempre più alla sorpresa che si può nascondere nel verso successivo. Non tutti alla fine resteremo soddisfatti, anzi certamente molti resteranno insoddisfatti, per non aver trovato gli elementi di quella catarsi emotiva capace di dare forza all'esistenza...