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Può il processo per l'omicidio di un giornalista al dentro delle cose riservate che scrive essere lo specchio di un Paese intrappolato in una rete di sangue e misteri? Sì, se davanti ai giudici ci sono un ex capo del governo, un magistrato, tre uomini di Cosa Nostra e un neofascista della Banda della Magliana. Anche se alla fine tutti saranno assolti. Sul banco degli imputati il sette volte presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti, il magistrato prestato alla politica Claudio Vitalone, il capomafia Gaetano Badalamenti, il tesoriere di Cosa Nostra Giuseppe Calò, un giovane della banda della Magliana e militante della destra Massimo Carminati, un picciotto del mandamento di Boccadifalco, Michelangelo La Barbera. Ma non è a causa dello spessore politico o criminale delle persone finite davanti ai giudici di Perugia, che il processo per l'omicidio di Carmine Pecorelli, ucciso a Roma il 20 marzo 1979, resiste all'obliterazione nell'archivio delle cose da dimenticare in fretta, resiste per un valore che travalica le sentenze e le posizioni dei singoli.