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A quasi quarant'anni, Kushanava Choudhury, figlio della borghesia bengalese emigrata negli Stati Uniti, decide di tornare nella città delle sue origini per esplorare una delle possibili vie al "buon vivere": la riconciliazione con il proprio passato. Kushanava ci racconta tutto ciò che, con questo obiettivo nel cuore, ha imparato dalle strade di Calcutta: l'attaccamento profondo al proprio "para", il quartiere in cui si è nati e che rappresenta quasi un villaggio a sé, il concerto dei suoi diversi suoni, degli odori, dell'attività febbrile di un'umanità disincantata e insieme sognante; e poi i cerimoniali della città, il culto delle divinità induiste, i piatti tipici, il valore profondissimo della poesia, gli intrighi politici, le ingiustizie, la predestinazione delle caste, l'arretratezza e l'abilità nello sbarcare il lunario, ma anche la tensione continua verso una nuova vita, l'amore per le parole, l'arte, il cinema e la letteratura. Il suo è un racconto che sembra pervaso dal ritmo dell'"adda", l'attitudine locale a perdersi in conversazioni libere e fantasiose, una specie di indolente e sottile girovagare del pensiero. In questo cammino, solo apparentemente senza meta, "Città epica" diventa anche il racconto di una doppia storia d'amore: quella per Durba, la donna che il narratore ha sposato, e quella per le proprie radici, perdute e forse ritrovate.