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L'oro è un simbolo e, in qualsiasi circostanza venga usato, non serve per rappresentare la realtà. Ogni volta che un artista impiega questo colore - particolarmente pregiato perché non viene applicato come un pigmento ma steso in sottili, preziosissime foglie - intende alludere a qualcosa di altro, irraggiungibile, distante. Il fondo oro è il cielo, la sfera celeste del sacro, da cui emerge il Cristo giudicante dei mosaici di epoca romanica. L'oro è un elemento imprescindibile nella rappresentazione delle aureole dei santi che, decorate a rilievo, affollano le pale duccesche e dei maestri tra Due e Trecento, la cui ricchezza di dettagli conferisce un'aura di preziosità e raffinatezza che rimanda a una realtà superiore, da ammirare e adorare. L'uso dell'oro e il compiaciuto insistere su ornamenti e gioielli si spiegano in relazione all'attività orafa delle botteghe fra Tre e Quattrocento, quelle botteghe nelle quali ci introduce il Libro dell'arte di Cennino Cennini, un manuale che sintetizza l'abilità tecnica raggiunta dalle maestranze toscane e illustra le fasi della doratura. Tale competenza, tramandata nelle botteghe insieme ai materiali, è l'aspetto che più dà continuità alla pratica artistica fra Tre e Quattrocento (conferendo al Gotico cortese la sua caratteristica eleganza affusolata) e, in seguito, agli artisti del primo Rinascimento.