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Non precisamente appunti. Piuttosto un colloquio, una conversazione che l'autore intavola con la sua città per rendere esplicito il distacco - sofferto e maturato - tra la Milano interiore e quella del tempo e della gente. Il testo rievoca un periodo concreto, il secondo dopoguerra, lungo il filo di una doppia narrazione: da una parte l'adolescenza dell'autore - dove il racconto assume un taglio personale, amorevolissimo e struggente - dall'altra, a guerra finita, il vento della ricostruzione segnata di realismo e di senso del dolore. Un affresco di vertigine e di fretta, figure colte in circostanze vissute di persona, come Vivì che muore o il cardinal Schuster che fa un'indimenticabile omelia. O l'autore sorpreso dalla lettera del fratello, che gli confida l'enigma della crescita. Figure che si mescolano ai luoghi - la fiera campionaria, l'ippodromo, la Scala, corso Matteotti - in narrazioni intenzionate a sostenere immagini inattese, private. Umoristiche a volte, tragiche altre. È il caso di quando l'autore tratta il suo bisogno di capire, sospeso sulla richiesta di chiarimento di ciò che stava accadendo rivolta alle nuove generazioni («Ma i figli no!»). E questo è il rammarico: che la spiegazione chiesta a Milano - persone, non solo case - non arriva. Arriva invece il silenzio, contrapposto alla realtà del ricordo brulicante di vita. Un ostinato silenzio in cui si trincera la Milano "malata" di oggi, destinata - sembra - a imperdonabile dimenticanza.