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Una compagnia teatrale fallita, che vaga fuori dalla Città, che l'ha praticamente espulsa, alla ricerca di nuovi pubblici. La dirige un'attrice, Ilse, ossessionata dai fantasmi del Poeta, che per lei si è suicidato, e del personaggio di Madre, del testo poetico che si ostina a voler recitare. Il gruppo si imbatte, nel suo peregrinare, in una strana Villa, nascosta tra i monti, abitata da mostruose ed enigmatiche creature che si danno, la notte, a pratiche esoteriche di magia e a giochi oniroidi, per esempio quello di vedere sui muri interni proiettati i prodotti allucinati delle proprie fantasie. I due mondi si contrappongono, si riconoscono, si fondono per un attimo. Poi la compagnia, inutilmente invitata a restare per sempre nel misterioso Ospizio, riprende il cammino, per andare a rappresentare la Poesia davanti ai giganteschi lavoratori della Città Nuova. Qui Ilse verrà sbranata. Questa è la fabula dei Giganti della montagna, testo mitico-allegorico, mai terminato da Pirandello, testamento incompiuto, pieno di catastrofiche intuizioni sul futuro del teatro nell'industria culturale e nella società di massa. Questo studio intende decifrare le ambiquità contraddittorie del testo, leggendolo come una formidabile metafora del percorso che dalla scena teatrale porta allo schermo cinematografico, non solo all'interno dell'opus pirandelliano, ma entro gli orizzonti tragici-normalizzati della società novecentesca dello spettacolo.