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Forse non esiste un altro scrittore che sia stato capace di raccontare una città come Dickens ha descritto Londra. Le sue strade, ora larghe e percorse da eleganti carrozze, ora viuzze fetide, a stento illuminate dalle lanterne degli antri frequentati da uomini e donne di malaffare; la sua gente, dipinta in grandi affreschi vivacissimi, o ritratta da vicino, così vicino da mostrare gli occhi arrossati dall'alcool o dal pianto di una prostituta, la bocca piegata in una smorfia amara dei bambini già ladri a dodici anni. La grande metropoli rimane sullo sfondo anche quando Dickens racconta la vita della provincia e scrive dei "Tempi difficili" degli operai che allora conoscevano lo sfruttamento introdotto dalla rivoluzione industriale; quando scrive di "Grandi speranze" che fioriscono sulle rovine del passato, con tante fatiche e dolori. Vuole, Dickens, sempre un lieto fine alle sue storie, che tutto si risolva come nella notte di Natale di Scrooge, o nella storia di "David Copperfield", ma spesso l'accento non è posato con eleganza sul bel finale, sul bel matrimonio, sul cattivo che diventa buono. L'accento, anche con sfumature ironiche irresistibili, cade quasi a malincuore sulla disperazione che invade la vita quotidiana di tanti uomini e donne sofferenti senza colpa, sulla cattiveria contro i bambini e gli indifesi; Dickens è immenso quando si accosta ai perdenti. Pensiamo a "Oliver Twist", nato in un ospizio per poveri, e lo vediamo con gli abiti di un giovane aristocratico...