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Durante il lento processo di formazione dell'identità nazionale, dall'Unità alla Grande guerra, i manicomi furono considerati luoghi idonei a segregare le persone non presentabili e non in grado di contribuire alla costruzione della nuova società: i folli, i derelitti e i soggetti marginali che non si integravano con i canoni etico-economici della società liberale ottocentesca. Nato in tale contesto politico e sociale, il manicomio di Girifalco, grazie a una psichiatria condizionata dal positivismo lombrosiano, innervato dalle dottrine della degenarazione e dell'atavismo, e all'influenza delle correnti culturali che spiegavano l'arretratezza del Meridione e dei suoi fenomeni criminali in un quadro di «irreversibile inferiorità biologica e morale» delle popolazioni del Sud, inevitabilmente è diventato, per alcuni, il luogo simbolo della costruzione «scientifica» dell'inferiorità psichica e del carattere criminale di un'intera popolazione. La ricerca sugli atti di archivio e sulle cartelle cliniche di quel periodo documenta una realtà più complessa. Quel manicomio di periferia era adeguatamente inserito nella società rurale che lo circondava e riusciva a cogliere le molteplici sfaccettature del disagio mentale di un ambiente economico-sociale povero e premoderno e a introdurre anche pratiche terapeutiche d'avanguardia, seppure in un contesto in cui era possibile riconoscere i segni premonitori della tendenza a fornire quella «rappresentazione caricaturale» delle popolazioni meridionali che tanto avrebbe influito sulle future politiche per il Mezzogiorno. Prefazione di Mary Gibson.