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Le descrizioni di Napoli si ripetono identiche da oltre un secolo. Finita l'epoca del pittoresco, dei ruderi di Pompei all'ombra del Vesuvio, l'immagine ricorrente è quella di una malata cronica, i cui problemi sono sempre piaghe e la camorra un cancro. E così la città patologica aspetta di continuo, con rinnovata fede, il tocco miracoloso di un re taumaturgo o di un santo medico. Anche Pasolini era stato affascinato da questa metropoli del tempo immobile, di cui si parla sempre come della Parigi di Sue e di Hugo o della Londra di Dickens, "lo so questo - diceva -: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso - in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte - di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quello che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità". Aveva sperato, Pasolini, in una Napoli capitale dell'anti-moderno; per questo vi aveva ambientato "Il Decameron". Aveva scelto Napoli "contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva". E se oggi, invece, questa "sacca storica" fosse un laboratorio del governo neocapitalistico e televisivo? Se l'emergenza del rifiuto fosse la prima esposizione universale della prossima modernità?