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150 milioni sono gli immigrati che oggi, secondo le definizioni dell'Onu e i calcoli degli esperti, si muovono tra i diversi paesi del mondo. Per questo il problema occupa uno dei primi posti nelle agende politiche dei governi e delle istituzioni internazionali, più di tutti in Europa e in Italia, dove i flussi migratori da effetto divengono, a loro volta, motore dei processi di globalizzazione. Lo sport è stato uno dei più potenti fattori di internazionalizzazione quando, dalla fine dell'Ottocento, il mondo era ancora 'locale'. Gli anglosassoni che si recavano nelle più lontane aree della terra divulgavano, come soldati, colonizzatori e imprenditori, il loro costume sportivo. Eppure mai, come in epoca moderna, i due fenomeni si sono tanto ignorati tra loro. Le politiche dei migranti adottate dai vari governi difficilmente prevedono il ricorso allo sport come strumento di inclusione sociale, per quanto esso venga riconosciuto da tutti come una lingua franca capace più di ogni altra di favorire il dialogo e l'incontro tra le persone. Questa ricerca del Panathlon International, un'organizzazione non governativa riconosciuta dal Cio (Comitato olimpico internazionale) che ha come finalità la promozione dell'etica e del fair play nello sport mondiale, si ripropone appunto di colmare questa lacuna.