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Storicamente nato nelle scintille dell'opposizione moderna di tecnica e cultura, il design si è nutrito anche della ricchezza vivificante di questo conflitto, sfuggendo sia all'ambito dell'arte che a quello della tecnologia e nello stesso tempo servendosi di entrambe. Questa ambiguità strategica è servita al design a muoversi più agilmente, a definire un territorio riservato in cui operare e sperimentare, riuscendo a salvaguardare aspetti altrimenti rifiutati dalla modernità. Benché vicinissimo all'industria e alle sue logiche, il design non ha mai rispecchiato fedelmente l'ottimizzazione tecnicista, riducendosi a semplice mezzo della ragione economica, né ha aderito in pieno ai paradigmi scientifici del riduzionismo. Esso ha spesso agito, invece, come una sorta di grimaldello della modernità: più indisturbato nello sperimentare rispetto all'architettura, legato alla quotidianità e alla dimensione privata dell'abitare, ha fatto della vicinanza all'utente la sua forza persuasiva. Il saggio delinea quindi il ruolo svolto dal design nel passaggio dal "progetto trasparente" al "progetto opaco": nella modernità la superficie dell'oggetto ne prosciuga la profondità, l'oggetto non possiede quindi segreti né una sua specificità interiore. L'oggetto post-industriale rivendica attraverso i caratteri dell'indistinzione, dello sfumato, dell'opaco il diritto a custodire quella dimensione di interiorità e intimità dell'anima negata dall'ottimizzazione tecnica.