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Marina Cvetaeva conobbe l'attrice Sof'ja (Sonecka) Gollidej - il suo «più grande amore femminile» - alle soglie del 1919, il «più nero, pestilenziale, mortifero» degli anni postrivoluzionari, quando in una Mosca misera e affamata «si affratellò a una banda di commedianti»: gli attori allievi del Secondo Studio presso il Teatro d'Arte. Ventidue anni - ma con l'aspetto di una ragazza-bambina -, elfo, Mignon, Infanta, Sonecka, che aveva allora grande successo nelle «Notti bianche» di Dostoevskij, era capricciosa, sentimentale, indisciplinata, instancabile raccontatrice di sciocchezze, sogni, deliziose storielle, con un debole per le «paroline da collegiale», i diminutivi, le romanze strappalacrime da cui sembrava lei stessa uscita - l'opposto dell'indole «virile, retta, di acciaio» di Marina. Fra le due donne nacque una «amicizia frenetica, reciproca deificazione di anime», destinata a concludersi quando, dopo neppure un anno, Sonecka abbandonò Mosca per seguire il suo «destino di donna». Scritto nel 1937, quando ormai tutto annunciava la catastrofe finale (la Cvetaeva era stata definitivamente proscritta dalla colonia «émigrée» parigina e il marito, smascherato come agente sovietico, sarebbe fuggito di lì a poco nella Russia comunista, dove aveva già fatto ritorno la figlia Alja, dalla quale era arrivata la notizia della morte di Sonecka), all'ombra della perdita e del dolore, il racconto-epitaffio è smagliante, luminoso, sembra irradiare vitalità e tepore. Prodigi di una ancora viva affezione, ma anche di una scrittura - sempre sottesa dal pensiero poetico - che coniuga arditamente il sublime con la lingua della vita quotidiana, della strada.