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Nel "Processo" di Kafka si percepisce una perversione del linguaggio, della logica, dei punti di vista, infinitamente più radicale rispetto a ogni opera letteraria che lo abbia preceduto e forse anche seguito. Il volume propone un'interpretazione - rivolta sia agli specialisti sia agli appassionati - che, anziché trovare una presunta chiave del Processo, intende chiarire il curioso fenomeno per cui tutte le chiavi funzionano, e nessuna soddisfa; se non possiamo trovare un consenso su cosa significhi il romanzo, potremo forse trovarlo su come faccia il romanzo a tenere, sempre e comunque, in scacco il suo lettore. Questa domanda apre un varco verso altre ancora più fondamentali, e cioè la natura di ogni letteratura nei suoi rapporti con la logica di ogni comunità culturale, in ogni tempo. Conoscere Kafka significa scoprire che non c'è in lui nessuna angoscia e nessun assurdo, ma che la scrittura kafkiana è, prima di tutto, consolazione: l'unica vera, quella che deriva dall'osservare la realtà con uno sguardo attento, «per così dire senza battere le palpebre» ("Il castello").