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All'inizio del Novecento il Monte Verità è abitato dall'incanto. Per alcuni è un calderone di matti, persone furiosamente eccentriche, anarchici e asceti avvolti in pepli, evocatori di demoni lunari e vegetariani, dadaisti e naturisti. Per altri è una colonia di espatriati, emarginati visionari, utopisti in rivolta contro la società, ognuno preda dei propri sogni deliranti e primordiali, che su una rupe, nel mezzo di un prato ben coltivato, erigono l'ultimo scudo contro un mondo e un'epoca spiritualmente stremati. Hermann Hesse lo chiama «la mia Honolulu», su cui brilla un raggio di quella verità occultata da un cristianesimo che ha sostituito la paura con l'obbedienza, la gioia con la colpa. In questo triangolo delle Bermude dello spirito, in cui si fa labile il confine tra profondità mistica e stolidità ancestrale, il 15 giugno del 1933 il corpo senza vita di un uomo viene trovato ai piedi di una palma, la testa sfracellata contro una delle grosse pietre nere che ne circondano il fusto. Una mattina di aprile di qualche anno dopo, l'ultima adepta del Monte Verità ancora in vita inizia a narrare la storia dell'eremita del culto della noce di cocco. Alla sua voce Edgardo Franzosini unisce la propria, con quella sfumatura caustica e profondamente umana che la contraddistingue, e racconta la danza assoluta di Rudolf von Laban, gli occhi color porcellana della contessa Franziska zu Reventlow e la convinzione di Aleister Crowley, «La Grande Bestia» con le unghie orlate di nero, che la gente ne abbia abbastanza di ipotetici e presunti dèi. Tutte vite fatte di silenzio e contraddizioni, come quella tormentata da una violenta malinconia di Alceste Paleari, l'asceta che giocava a palla con l'attimo fuggente e viveva alla ricerca di una domanda. Tutte vite immortalate in un sulfureo e ingenuo atto di sfida: la ricerca della Verità.