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L'incubo del campo di concentramento, visto dagli occhi sbigottiti di un bambino; il difficile ritorno alla vita quotidiana nella Romania del dopoguerra, sotto un regime inquisitorio e ridicolo insieme; la maturità solitaria in cerca di speranza e salvezza dallo spazio angusto di un'altra dittatura. È questo l'orizzonte esistenziale dei racconti di Norman Manea. La persecuzione razziale, il conflitto, il senso perduto degli eventi e dei legami umani pongono lo scrittore in una dimensione spirituale di esilio, riflesso di quello simmetrico che lo portò, a soli cinque anni, a essere rinchiuso in un lager in Ucraina perché ebreo, e che da adulto, vittima del regime comunista, lo costringerà a emigrare negli Stati Uniti. Ma dal caos e dalla disperazione, talvolta, può nascere il riscatto: bagliori di speranza, gesti di sfida, momenti di epifania poetica costellano la raccolta di Manea. Avvolti da cupe atmosfere kafkiane, ma sempre venati da un'inconfondibile ironia yiddish, i racconti si riuniscono in un solo vivo organismo grazie alla scrittura di Manea. Nel vortice continuo e inestricabile delle immagini, il dato biografico si intreccia alla Grande Storia, mentre l'autore si fa interprete del dramma umano dello sradicamento, fisico ed emotivo. Come a voler dire: non dimentichiamo le nostre origini, i luoghi natii, la lingua madre, altrimenti saremo ineluttabilmente perduti.