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"Attorno al tempio di Angkor Wat, nel nord della Cambogia, si aggirano decine di accattoni bambini con le loro sacche piene di souvenir. Passano le giornate nella polvere, cercando accanitamente di venderli per un dollaro ai turisti che arrivano a contemplare le rovine nella giungla da ogni paese del mondo. Questi bambini non si sono mai allontanati dal loro villaggio, spesso sono analfabeti e non hanno mai visto un computer. Ma molti di loro possono conversare e far di conto in inglese, francese, tedesco, russo, olandese, cinese, giapponese, coreano, tailandese, vietnamita: non fanno altro da quando avevano meno di due anni". A modo loro, i bambini di Angkor Wat sono l'emblema di un aspetto della globalizzazione, quel calderone di dimensioni planetarie di razze, culture, interessi, vita, identità, che distingue l'oggi. Un aspetto inedito e stridente, che non avevamo considerato intenti come siamo a prendere posizione pro o contro l'interconnessione dei mercati, chi millantandola come la grande speranza del ventunesimo secolo, chi cogliendone la grande paura e il senso di minaccia. Questo non è l'ennesimo libro sulla globalizzazione. I reportage di Federico Fubini non parlano di magnifiche sorti e progressive o delle grandi potenze emergenti. Non stigmatizzano l'aggressività di Riad, di Pechino o di Wall Street. Raccontano con occhi curiosi storie che non sapevamo di città e regioni del mondo viste dal basso, di uomini e di donne veri, di cosa è successo alle loro vite.