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Il libro, scritto dal capo redattore del giornale Oslobodenje (Liberazione), testimonia i giorni dell'orrore e lo stato d'assedio a Sarajevo e racconta la cronaca della "pulizia etnica" e della sua logica da bestie tecnologiche. "Dopo che ci siamo arrovellati - ammesso che l'abbiamo fatto - sui nostri sentimenti per Sarajevo, ecco finalmente uno che ci dice con che sentimenti verso il resto del mondo la gente di Sarajevo si misura da anni con la morte, la mortificazione e la menzogna. Sono molte le cose, in queste pagine, che ci daranno fastidio. Ci darà fastidio scoprire quanto valgano davvero (valgono infatti, ma non tanto) i nostri aiuti umanitari; quale infamia possa mascherarsi con le magnanime e sconsolate dichiarazioni sul fatto che «tutte le parti sono altrettanto responsabili»; quanto poco eccentrica e primitiva e rassicurantemente «balcanica» sia Sarajevo e la sua gente, e quanto invece vicina e simile a noi (simile, almeno, a quello che noi ci vantiamo e ci illudiamo di essere); quanto poco, infine, ci si aspetti lì da noi - in un senso, Sarajevo ci ha abbandonati al nostro destino. Giornale e diario quotidiano, gli scritti di Dizdarevi? tormentano soprattutto per l'ossessiva ripetizione del resoconto di una vita con la morte e la fine di tutto, in cui ogni giorno è uguale al precedente ma peggiore, e mille volte si scrivono le parole fatali ormai, mai più, per riscriverle ancora una volta ancora più fatali e definitive. D'altra parte Dizdarevi? mostra, giorno dietro giorno, la faccia che nessuno vuol vedere di questa sporca guerra: e cioè che c'è una minoranza di banditi prepotenti e strapotenti, e tanta gente inerme, falcidiata e costretta ad abbassarsi sotto il tiro dei cecchini, ma attaccata alla propria città e alla vita civile, al ricordo di un altro modo di essere delle cose che è stato e che dovrà tornare. Se e quando tornerà, dovrà pur esserci uno specchio in cui ciascuno si guarderà in faccia. Anche questa resistenza asciutta e lucida, senza speranze e senza preghiere, può darci fastidio, qui, nel nostro padiglione degli specchi ruffiani". Adriano Sofri.