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Primavera 1955. Pasternak sta ultimando quel Dottor ?ivago che, nel novembre di due anni dopo, uscirà in prima mondiale per Feltrinelli e godrà subito di notorietà universale, fino al Premio Nobel. Su questo sfondo intricato nasce Quando rasserena, ultima raccolta di uno scrittore che, da più di un decennio ormai, si sta allontanando dal suo stile precedente e orientando verso la cifra e i tratti di- stintivi della sua fase estrema: affabilità di dizione e relativa comprensibilità di contenuti. «Fedeltà alla vita, alla vocazione di scrittore, alla natura animata dall'attività fruttuosa dell'uomo» (sono parole del figlio Evgenij) vengono restituite in uno stile dove è come se Pasternak si fosse definitivamente affrancato dallo sgargiante groviglio metaforico-metonimico delle sue prime raccolte, senza però smarrire la concentrazione dello sguardo e, semmai, schiarendo la sua vena di «preciso e brusco descrittore» (D. Bykov). Quando rasserena appare dunque come la prova poetica testamentaria di un autore propenso a sperimentare (e a offrirci arditamente) ogni risvolto possibile di una «semplicità inaudita» che egli stesso aveva pronosticato a sé decenni addietro; un autore munito del commovente coraggio di mimare l'abbandono al gesto primo della composizione, quali che ne siano gli spunti, come se si trattasse di un esercizio di respirazione dove, dell'aria inalata, egli vuole conservare tutto, dall'impalpabilità alle tossine. E qui spuntano le parole con cui Pasternak era intervenuto il 25 giugno 1935, a Parigi, al Congresso per la difesa della cultura: «la poesia [...] giace nell'erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra». (Dalla prefazione di Alessandro Niero)