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Verso la metà dell'Ottocento, un nuovo mondo si aprì all'Occidente quando gli europei si addentrarono per la prima volta nell'entroterra dell'isola del Borneo. Le spedizioni scientifiche e militari, che si inoltrarono nella foresta per raccogliere informazioni sulle risorse naturali e sugli abitanti nativi Dayak, dovettero fare i conti sia con impegnative vie d'accesso, sia con bellicosi popoli che difendevano il proprio territorio. La maniera occidentale di guardare al Borneo fu influenzata dalle dure esperienze di tali spedizioni, che delinearono nell'immaginario occidentale una doppia percezione dell'isola: la lussureggiante foresta pluviale e l'incontaminata bellezza della sua natura, che rimandavano all'idea di una primordiale età dell'oro, costituirono gli estremi di una visione che trovava, sul lato opposto, i nativi Dayak, rappresentati nella letteratura e nell'iconografia del tempo come crudeli cacciatori di teste. L'arte del Borneo, concepita in modo stereotipato, si portò appresso il peso di tale retaggio e fu segnata dalle stigmate del feticcio e dell'oggetto «primitivo». Osservandola da una tale prospettiva, fu inevitabile che da essa derivasse una visione distorta dell'elaborata tradizione culturale dayak, le cui manifestazioni ne rivelano invece la sorprendente profondità.