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Sul palco o in pittura, per Jean-Marie Barotte (Milano, 1954) l'espressione è soltanto una questione di equilibri, di ritmi, di chiaroscuri, giochi calcolati di presenze e assenze. E lo spazio dell'immagine, proprio come quello dell'azione, è uno spazio aperto, da attraversare con un tratto, un verso, prima di andarsene via. In questo modo, quasi fossero pagine di un copione, si possono leggere le sue opere percorse da segni, apparizioni, tracce che la mano scava nella fuliggine con pettini di fortuna, rami sottili che lasciano impronte di cortecce, rivoli di cera. La materia è cangiante. Il nero non è mai sordo. Ma vibra di luci nuove, lunari.