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A caratterizzare l'età rivoluzionaria e napoleonica in Italia fu il grande esodo di opere d'arte verso la Francia. Ma, accanto alle spoliazioni maggiori, la soppressione dei conventi e la secolarizzazione delle chiese resero disponibili quote ingenti di patrimonio, che finirono sul mercato o cominciarono a "viaggiare" per pinacoteche, musei, collezioni. I contesti originari, che avevano fino ad allora conservato in loco i propri beni culturali, furono cancellati o alterati, mettendo in discussione l'idea stessa dell'Italia-museo, cara alla sensibilità del XVIII secolo e alla pratica sociale del Grand Tour. Eppure, proprio gli spostamenti, le sottrazioni, le nuove collocazioni e le nuove destinazioni d'uso favorirono una percezione più matura del patrimonio culturale, che si tradusse - soprattutto nello Stato pontificio -in una normativa di tutela d'avanguardia, d'indiscusso rilievo europeo. Un generale, Napoleone Bonaparte, un papa, Pio VII Chiaramonti, e un artista geniale, Antonio Canova, furono i principali protagonisti di questa vicenda: ma, accanto a loro, una schiera di intellettuali, di eruditi, di critici - da Quatremère di Quincy a Fea - cooperò, spesso in modo involontario, al consolidamento di un nuovo statuto del patrimonio culturale, che alla gloriosa tradizione italiana avrebbe aggiunto quel senso di identità e di appartenenza collettiva che il poderoso vento della nazione aveva diffuso nel continente.