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Indefesso traduttore e filologo estremo, Giorgio Colli è stato anche un filosofo di genio. Sossio Giametta definisce «visionaria» la sua opera più speculativa - Filosofia dell'espressione - e «piena di carattere e insieme di alata magia» la sua scrittura. E in effetti, già dalle prime pagine, si ha come l'impressione di non essere al cospetto di una forma prevedibile o di una tradizione di pensiero facilmente riconoscibile. Arduo è decifrare, senza la dedizione necessaria, la mente che intesse la trama degli aforismi: il linguaggio, ambiguo come il sorriso dei kuroi, è allusivo ed elusivo al tempo stesso. Ma una volta illuminate le connessioni profonde, si schiude al lettore un ventaglio di doni grandiosi quanto venefici: se il mondo non fosse che il propagarsi di una violenza essenziale o il giuoco insensato di un fanciullo? Se il soggetto non fosse che un oggetto tra gli altri e la storia un intreccio trascurabile di nessi cosmici? Se filosofia, letteratura e scienza non fossero altro che menzogna e il logos un'arma di distruzione tesa a demolire qualsiasi verità? Ma l'elemento tragico, a cui già Schopenhauer e Nietzsche ci avevano abituati, lascia spazio all'entusiasmo quando si comprende che, di là dalla bieca apparenza delle cose, scorre il flusso inebriante di Dioniso, dove la vita può celebrare gioiosamente il suo trionfo. Ciò che Alessandro Biddau ha tentato per la prima volta con questo saggio, è di fare luce sulle vette e le asperità di un'opera giudicata «tutt'altro che innocua».