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Il male, afferma Hannah Arendt nel 1963, è spesso frutto di un'azione impensata: è infatti l'assenza del pensiero - del pensiero critico - a generare il male. Ma c'è un "in più" che accompagna il suo interesse per il male e che compone e completa, se vogliamo, la "mappa" del suo pensiero. Questo ulteriore elemento è ciò che ci consente di definire l'autrice una "pensatrice spaziale". Il male non è mai isolato, giunge ad ipotizzare Arendt (1958), ma progredisce e trova sostegno nella vulnerabilità degli ambienti - pubblici e privati - dell'esperienza umana. Ecco, dunque, dove collochiamo la riflessione che interroga l'educazione e, in questo caso specifico, gli ambienti e i contesti educativi coinvolti nella definizione di percorsi esistenziali emancipativi. Da questo punto di vista, l'"eredità pedagogica" arendtiana è ciò che consente il rinnovo di una sfida educativa tanto attuale quanto fragile e precaria: l'azione orientata alla tutela degli ambienti dove abbiamo - dovremmo avere - occasione di rinvigorire quel pensiero che smaschera e, se può, "resiste" alla banalità del male.