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A distanza di tre decenni dalla caduta del Muro di Berlino, è opportuno fare un bilancio sulla transizione alla democrazia negli ordinamenti già socialisti dell'Europa centro-orientale (compresi quelli appartenenti all'area ex-iugoslava). Si tratta di un gruppo di Paesi tanto vasto quanto estremamente eterogeneo, che seguita ad essere accomunato per l'ancora recente passato socialista, ma di cui si trascurano le profonde differenze in merito sia al passato remoto sia alle modalità della stessa transizione. L'esame delle rispettive forme di governo, sia per quanto attiene alle prescrizioni formali sia con lo sguardo rivolto ad alcuni aspetti della loro attuazione anche nella prassi, mette in evidenza diversità che non erano prevedibili nelle tappe iniziali della transizione. Nell'ultimo decennio, ha richiamato l'attenzione lo sviluppo imprevisto di due Paesi, la Polonia e l'Ungheria, in quello che pare un regresso rispetto ad alcune iniziali acquisizioni democratiche. La sorpresa è maggiore se si considera che si tratta di due Paesi sono stati all'avanguardia del processo di democratizzazione fin dal 1989: forse gli ultimi dai quali ci si sarebbe attesi una nuova svolta, espressione di un disegno sistematico, nel senso di una "democrazia illiberale". A dieci anni dall'avvio dell'involuzione ungherese, e a cinque da quella polacca, i due Stati rischiano di non esser più solo un problema per l'Unione europea, ma di poter formare paradigma di un sistema nuovo, un ibrido tra democrazia e regime illiberale, non totalitario e forse neanche compiutamente autoritario, ma con molti tratti riconoscibili sotto questo aspetto.