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Vi sono due idee molto diffuse nella maggior parte delle teorie contemporanee dell'argomentazione "pratica" e giuridica. La prima consiste nell'elaborare una concezione della razionalità costruita a immagine e somiglianza degli "dei", i cui requisiti (ad esempio la conoscenza di tutti i fatti rilevanti, oppure la coerenza di tutte le nostre preferenze) sono così forti da essere impossibili da soddisfare compiutamente. La seconda è che la razionalità di un discorso o di una decisione dipende dalla sua conformità ad un insieme determinato di valori morali, valori spesso e volentieri concepiti in modo aggettivo. Nel presente volume si mostra che entrambe queste idee non sono condivisibili: la concezione migliore della razionalità è, infatti, sia (moderatamente) formale che "limitata". Limitata in quanto si tiene conto dei numerosi limiti, materiali, intellettuali, temporali in presenza dei quali la ragione viene utilizzata. Formale in quanto i criteri in base ai quali giudichiamo una decisione o un discorso moralmente ingiusti devono essere (il più possibile) separati dai criteri utilizzati per stabilire se una decisione o un discorso sono irrazionali o insufficientemente razionali. In base ad una concezione formale e limitata della ragion pratica si stabiliscono i requisiti necessari affinché l'argomentazione giudiziale, in particolare la motivazione giudiziale cosiddetta "in diritto", sia considerata (sufficientemente) razionale.