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Fino al tardo Ottocento, quando insorgevano complicazioni nelle fasi finali di una gravidanza e si rendeva necessario un intervento di parto cesareo, era chiaro a tutti che la madre era spacciata. Non c'era scampo: si incideva il ventre, si estraeva il bambino e si lasciava la donna al suo destino. «Il taglio cesareo provocava un terrore che proveniva da lontano, dalle profondità del passato», ci racconta Paolo Mazzarello, «perché era associato all'idea di morte della partoriente, sedimentata in secoli di drammi terribili». Nel 1876 accadde però qualcosa di nuovo, qualcosa che vale la pena conoscere, poiché rivoluzionò la vita della nostra società ben più di molte famose scoperte dell'epoca, continuamente celebrate. Accadde, cioè, che una giovane donna di nome Giulia Cavallini, affetta da rachitismo e giunta al termine della gravidanza, si affidò alle cure del professor Edoardo Porro, primario ostetrico dell'Ospedale San Matteo di Pavia. Col canale del parto della giovane donna quasi completamente ostruito per via della deformazione delle ossa, Porro - uomo risoluto, vecchio garibaldino e medico particolarmente attento al destino delle sue pazienti - capì che doveva elaborare una tecnica nuova, un'invenzione in grado di salvare, oltre al bambino, anche la madre. Ci riuscì, e rapidamente la «tecnica di Porro» entrò nel repertorio chirurgico europeo. Grazie a Edoardo e a Giulia - ognuno coraggioso a modo suo - si aprì la strada a un'epoca, la nostra, nella quale un parto cesareo non è più una condanna a morte sicura, bensì un intervento relativamente semplice, grazie al quale le donne non devono più temere un atroce, ineluttabile destino.