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Se il cuore di una mela racchiude un frutteto invisibile, come recita un proverbio gallese, proviamo a immaginare quali scrigni di tesori abbia in serbo quell'enorme semenzaio che - secondo Henry Thoreau - è la terra. Nel caso dei semi scienza e fantasia gareggiano, ma la prima sembra avere la meglio: romanzi gotici e d'avventura, trame amorose, drammi della fiducia tradita non riuscirebbero a eguagliare gli ardimenti, l'abilità di raggiro, le seduzioni di cui i semi hanno dato prova, fin da tempi remotissimi, nella loro vita evolutiva. È merito di Jonathan Silvertown saperci stupire e incantare con vicende insospettate di corredi genetici, embrioni, veleni, predatori, fragranze, voli, colori, che rendono trasparenti anche metafore comuni e usi letterari. Apprendiamo così come la tartaruga che in "Furore" di John Steinbeck lascia cadere dal guscio semi di avena ottemperi a una strategia di dispersione della pianta. Impalpabili o scultorei, sopiti per millenni o germoglianti in un baleno, alati o zavorrati di grassi, appetitosi o letali, i semi sono fattori di civilizzazione e di socialità. Il libro di Silvertown ci familiarizza con l'esistenza germinale di ciò che insaporisce la nostra dieta, lussureggia nei nostri parchi, arricchisce la nostra farmacopea.