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Sandro Onofri muore nel 1999, a 44 anni. Nel suo computer la moglie ritrova un diario, incompiuto: è l'ultimo racconto della scuola pubblica nel Novecento, e ha il sapore di un involontario testamento. A distanza di un secolo da 'Cuore' di De Amicis, e alle soglie di un nuovo millennio e di una rivoluzione tecnologica, Onofri torna a chiedersi, con il suo stile asciutto e antiretorico, quale sia il modo più onesto per insegnare. È un uomo pieno di dubbi, ma ama il lavoro che ha scelto: «Esiste un mestiere più bello del mio?» Quello che gli interessa è l'autenticità, non la brillantezza. Non rimpiange niente, solleva domande e non si fa illusioni. Sa che «gli studi umanistici non umanizzano» e che, dove insegna, i libri non esistono: su settanta alunni, soltanto uno ha letto Pinocchio. Ma più di tutto detesta i condizionamenti delle famiglie e il vittimismo dei colleghi, l'omologazione dei loro alibi, l'incuria. La sua è la voce isolata di chi ha scelto di stare dalla parte degli studenti. Si sente affratellato ai ragazzi che lo respingono: ne riconosce il malessere, che è stato anche il suo. Vorrebbe salvaguardarne l'innocenza, proteggerne l'estro, che «non si dovrebbe mai scassinare», trovare con loro una lingua comune, tra incanto e noia. Perché per essere uguali bisogna possedere le parole, anche quelle scritte: è questo che tenta di dire ai suoi alunni, pur nel timore di trasmettergli la sua stessa «incapacità di adattamento alla realtà, una diserzione dal tempo, una sconfitta». "Registro di classe" è la sua ultima lezione, la più umana.