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Abitiamo un mondo in cui sembra che tutto sia ovunque uguale, ma in cui, allo stesso tempo, ogni tratto locale o individuale tende a diventare una pittoresca insegna di sé stesso. Così le nostre rare province anonime, ossia quelle che nemmeno dell'anonimato o del degrado riescono a fare un marchio, sono luoghi più esotici di qualsiasi capitale straniera occidentale ovvero occidentalizzata; e possono diventare una buona metafora di ciò che della nostra esperienza ancora non è omologato, ricattabile dalle ideologie di stagione, ridotto al regime della comunicazione onnipresente e completamente socializzato. Forse per questo alcuni tra i letterati meno conformisti guardano oggi con amore a province del genere, e sentono vicini Carlo Cassola o il Goffredo Parise dei Sillabari. E il caso di Alex Caselli. I suoi racconti, novecentescamente travestiti, descrivono le ore monotone e le epifanie improvvise al cui ritmo si svolgono, di solito in uno scenario emiliano-romagnolo, le esistenze di persone qualunque che però qualunque non sono mai, dato che il narratore sa quanto resti enigmatico ogni più semplice momento di ogni essere: due uomini che concludono un affare sulla battigia, la vertigine di un adolescente e di un allenatore che s'interrogano sulle loro scelte, l'ansia di una donna sola in attesa del referto medico... Caselli ci fa assaporare i piccoli riti di queste esistenze, e il modo in cui nei riti s'insinua un disagio, una nostalgia delle potenzialità che sfumano intorno alla realtà quotidiana. Ma spesso, verso la fine, il disagio si dissolve come certi indefinibili malesseri fisici: bastano un gesto appena accennato, un odore o uno sguardo, ed ecco che riaffonda nel mare dell'essere, finché chi l'ha provato torna "calmo, senza coscienza" e "non desidera altro". Questo accade a personaggi inclini a una sorta di flessibile passività, la quale se da un lato li consegna a una depressione leggera, dall'altro li mantiene straordinariamente permeabili, sempre aperti ad accogliere i segnali di qualcosa che è più grande di loro e che li avvolge: un divino che si rivela magari nel gusto di un cibo o in un cambiamento di luce, e davanti a cui le teorie psicologiche o gli apprendistati culturali subito sbiadiscono. Per passare il tempo fermi così nell'occhio del ciclone, evitando di fare mosse false e di smarrire la via di un destino che è quasi indistinguibile dal carattere, bisogna avere una visione religiosa delle cose.