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Alle sedici e dieci di lunedì 17 agosto 1987 un uomo, recluso nel carcere di Spandau da una quarantina d'anni, di cui oltre venti trascorsi in totale solitudine ("privilegio" mai accordato a nessun altro, nella Storia), raggiunge il giardino per la consueta passeggiata. Novantatré anni, malato di cuore, quasi cieco, il corpo ormai scheletrico, quel vacillante, inoffensivo prigioniero è guardato a vista da un imponente apparato di vigilanza, organizzato dai vincitori del secondo conflitto mondiale. I sovietici lo pretendono in piena efficienza come quando la fortezza accoglieva seicento prigionieri, compreso il pattugliamento delle celle vuote (con un esborso annuo, per gli alleati, di quasi un milione di dollari), nonostante le condizioni del detenuto e i tanti, autorevoli appelli in favore della sua liberazione: lo considerano un nemico della patria nonché l'emblema dell'Operazione Barbarossa, l'invasione nazista dell'Unione Sovietica. Lasciato inspiegabilmente solo, quel pomeriggio il prigioniero affretta il passo malfermo e, in un paio di minuti appena, raggiunge la casupola del giardiniere, assicura un cavo elettrico a una trave e, secondo l'improbabile versione ufficiale, si impicca. Si trattava davvero di Rudolf Hess, o non piuttosto del suo sosia? Il dubbio non è nuovo, mentre è del tutto nuova la ricostruzione della figura di questo enigma della Storia in una narrazione documentaria dal respiro di un diario segreto, con la penna-testimone che passa da Hess al suo sosia. Dove, a ottant'anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale e della sua nomina a terza carica del Partito Nazista (dopo Hitler e Góring), il Solitario di Spandau, riflette criticamente, con appassionata lucidità, sui protagonisti, sul senso e sulla portata di eventi che hanno "dettato" la Storia e sgretolato il concetto stesso di umanità. E che rimangono di una attualità sconcertante quanto ammonitrice.