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Cos'è il «popolo» in una qualunque città dell'Italia comunale tra XIII e XIV secolo? Un segmento della società, un insieme di associazioni federate, un'istituzione o un complesso di istituzioni? In genere tutte queste cose insieme, ma anche, spesso, la memoria tormentata e confusa di una dimensione unitaria che era andata in pezzi nel corso del XIII secolo, e che, anch'essa, poteva essere detta «popolo». Alla fine del Duecento, nel pieno dell'affermazione della parte «popolare» in alcune città importanti, uno spazio tanto semantico quanto sociale si è definitivamente scomposto, rivelando una nuova pluralità di significati di «popolo», anche in contraddizione fra loro, mentre altri riferimenti alla totalità politica prendono forma, e in particolare una nuova nozione di «bene comune». Proveniente direttamente dal lessico teologico e intensamente evocativo di un'armonia politica contraddetta quotidianamente dall'esperienza del conflitto fra fazioni, e fra milites/magnati e popolo organizzato, il «bene comune» si mostra per quel che è: metafora idealizzata e sfuggente della comunità lacerata, e insieme il suo orizzonte utopico.