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La silloge di esordio di Marco Martinenghi è elegante, raffinata eppure distante dagli schemi tradizionali, versi brevissimi talora note appassionate su un pentagramma d'autunno, talaltre secchi, disincantati come ciottoli scheggiati sul greto di un fiume abbandonato. Sottende una melodia tagliata, un ritmo cadenzato che apparentemente si risolve in una lettura semplice, immediata. In realtà, ogni lirica racchiude un universo di sensazioni e riflessioni, il desiderio del desiderio di andare oltre l'apparenza delle cose, controvento impavidi, lucidi e consapevoli. Avvicinandosi, sotto certi aspetti, alla street poetry soprattutto nella ricerca costante di un modo per esprimere il pensiero in libertà e in modo accessibile. Se però i poeti di strada hanno bisogno di liberarsi dalla schiavitù della carta sì da entrare in contatto con gli innumerevoli passanti scrivendo sui muri, Martinenghi il suo muro di anima e carta lo plasma con sorprendente empatia. Quale street (paper) poetry, sia pure anomalo, non lavora molto sull'aspetto estetico - quasi assente la retorica, funzionale ma libera la metrica - quanto a quello rappresentativo: il suo unico fine è trasmettere il messaggio e il suo valore. Da qui la priorità e l'importanza assegnata alle parole. Si avverte la cura con cui sono state scelte e assemblate, nella convinzione che un uso impreciso possa manipolare le coscienze e le menti. Il poeta sviluppa un flusso verbale che orchestra i temi della vita quotidiana, un soffio leggero con la forza di un vento impetuoso. Attraversa l'amarezza delle cose umane nella loro vicissitudine di violenza, malattia, depressione, morte, ma incontra anche il demone erotico, e con esso il sogno, la fantasia, e i libri e le figure del passato che illuminano il presente. Con un'attenzione costante alle pieghe infinite e alle corrispondenze sotterranee dell'esistenza.