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La poesia di Antonio Calabrese prende forma sulla riva del mare, come arte all'aria aperta, realizzata nella minuta e ravvicinata percezione di oggetti e altri elementi: lo sguardo del poeta, che è attratto dalla vastità della superficie marina, pone anche in evidenza dettagli circoscritti, dal gabbiano fino a una conchiglia, trasferiti sul foglio come una preziosa miniatura, da cui quasi impreviste si schiudono le immagini poetiche. Sullo sfondo senza fine dello spazio marino, le poesie si soffermano su piccoli oggetti, che si possono trovare sulla riva del mare e possono anche frantumarsi in una sminuzzata indistinzione («na muniglia 'e cocciole»), che prendono però forma in un lessico in cui si addensano ricordi: 'a paglia 'e mare, la mazzamma, il rancefellone, il cippo attunnato, lo scunciglio, il rancetiello che ricama la catena delle sue impronte, 'e ggavine, cocciole e petruzzelle, e poi 'a varca con le sue singole parti, 'e vvele, 'e rimme, 'e cumiente, na cimma, nu fierro. Le parole del dialetto, cercate e trovate con cura amorevole, diventano di fatto parole "ricercate", non perché siano preziose in partenza, ma perché sono diventate rare nell'orizzonte individuale del poeta, che nei versi ritorna idealmente al momento in cui le ha sentite per la prima volta. Anche il dialetto, cercato e ritrovato, da un lato sembra perduto, ma dall'altro «pe sempe resta», tanto più se entra nell'orizzonte della poesia, in cui, in un certo senso, ogni lingua è riscoperta e diventa nuova, come se fosse usata per la prima volta, indipendentemente dalle sue precedenti venture. Con glossario napoletano italiano. Presentazione di Nicola de Blasi.