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Fortezze devastate, corpi avvizziti, guance solcate dalle lacrime. Urla laceranti. Interrogativi che sembrano spegnersi nel silenzio dei cieli. Un accenno velato di speranza. La distruzione, la morte e la sofferenza sono presenti ovunque, nei versi del libro biblico delle Lamentazioni. Ma proprio lì, in mezzo alle ceneri, i suoi locutori rimangono ostinatamente aggrappati alla vita e al loro Dio. Prendono l'assurdo visto e il dolore provato e lo fanno divenire preghiera. Esprimono, così, resilienza e fede, nonché la sinergia che tra esse può instaurarsi. Sinergia capace di realismo, di assunzione di responsabilità, di tenacia fattiva, di fede in grado di riconoscere il vero volto di Dio e con lui interloquire. Un Dio che usa la «verga» (Lam 3,1), che «fa abitare in luoghi tenebrosi» (Lam 3,6), «che soffoca la preghiera» (Lam 3,8), ma che rimane pur sempre un Dio al quale poter gridare il proprio dolore fino allo spasimo, per giungere, proprio al limite della lacerazione, a quella svolta inattesa, ma tanto desiderata, dove il grido diventa lode.