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La censura è morta, viva la censura. Da quando quella del KGB costringeva Igor e Liana Pomerantsev, lui giornalista e lei documentarista, a lasciare la Russia insieme al figlio Peter, di acqua sotto i ponti ne è passata. Del KGB si parla solo nei film di spionaggio, il regime è caduto e la guerra fredda è finita: il modello democratico occidentale ha vinto a colpi di libera informazione. O forse no? La pluralità di voci che oggi si leva dai social media sembra il frutto maturo della vera democrazia: ciascuno può esprimere il proprio pensiero senza subire né censure né propaganda, descrivendo la realtà come appare agli occhi di chiunque. La stessa esistenza di questa pluralità però cancella l'idea di una realtà univoca e valida per tutti. "Censura tramite rumore" la chiama Pomerantsev, una vera tattica comunicativa: si inondano i social di una tale quantità di fake news che anche i contenuti verificabili si riducono a una delle tante versioni possibili e perdono il loro valore di verità. Dice l'autore in un'intervista rilasciata lo scorso aprile al quotidiano tedesco Zeit Online: "L'idea di una realtà oggettivamente descrivibile si rivela un'illusione anche nel caso del Covid-19, perché la riflessione su questo virus si frantuma in milioni di storie e pregiudizi. Il che ci porta alla domanda su dove esattamente inizia la realtà. Se non riusciamo a essere d'accordo su una base fattuale comune di fronte a una pandemia, quando e in quali circostanze lo saremo?" Dalle Filippine alla Cina, passando per Russia, America latina, Gran Bretagna e Finlandia, Pomerantsev intreccia la propria storia con quella delle mutazioni subite dall'informazione mostrandoci che abbondanza e mancanza di fonti possono essere la faccia della stessa propaganda di stato, ma soprattutto che non sempre la pluralità di opinioni significa democrazia.