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Non c'è filosofo, degno di questo nome, che non si sia interrogato intorno al proprio fare, in merito al senso e allo scopo della sua (spesso incomprensibile) attività. Anche Wittgenstein non fa eccezione a questa regola. E lungo tutto l'arco di sviluppo della sua parabola speculativa ha ripetuto, in maniera ossessiva, che la filosofia va concepita, anzitutto e per lo più, come una "chiarificazione di ciò che può essere detto intorno al mondo": è una terapia linguistica. In questo lavoro, si tenta di mostrare che è in gioco anche dell'altro, tanto da ammettere che in Wittgenstein la filosofia si dice (e declina) in molti modi, assumendo infine, data la sua vocazione pragmatica, il profilo (e il peso) di una vera e propria esperienza esistenziale, "il che significa direzione e destino" (Celan): una forma, una scelta di vita, che si risolve in uno di stare al mondo "ad occhi aperti" (Yourcenar), avendo cura di "non smettere mai di riflettere", nel rispetto dell'ingiunzione kantiana di pensare in proprio, in autonomia - "ciascun modo di pensare va bene a patto che non sia stupido".