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Al cuore dell'uomo c'è una lacuna incolmabile, una mancanza di sé e di senso: incompiuta, l'umanità è condannata a farsi senza fine, a darsi forma e direzione, darsi un mondo, e al tempo stesso è per questo spinta a rifarsi, a ribaltare e risolvere quest'umanità incerta e dolorosa in qualcos'altro, salvandosi. Nel Giappone medievale, due monaci buddhisti hanno preso vie opposte rispetto al problema di farsi uomini e buddha. Il primo, Shinran (1173-1263), radicava la pratica in un mito, quello del Buddha Amida, che avrebbe fatto voto di far rinascere nella sua Terra Pura tutti coloro che si fossero semplicemente affidati a lui, senza distinzioni: bastava che ne recitassero il nome e avrebbero naturalmente finito col trovare il risveglio. Il secondo, Dgen (1200-1253), insegnava che la pratica del sedersi - fermi come montagne - nella postura del loto, alla maniera del Buddha Sakyamuni, attuasse ed esprimesse immediatamente un risveglio già presente in tutte le cose. Ma se a prima vista la ferita dell'uomo è cucita col filo di una storia solo nel primo caso, mentre nell'altro si rimargina in un'esperienza diretta, a uno sguardo più attento si rivela più difficile distinguere azioni e narrazioni, realtà e mondi, e ciò che appare sono piuttosto due modi diversi di "narrarsi in salvo", di farsi e rifarsi nei racconti. In sinergia con un'ottica antropo-poietica, l'analisi semiotica si dimostra qui capace di inseguire il senso ai suoi limiti.